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sabato 4 agosto 2012

Le Beatitudini








I tratti dell’uomo nuovo in Cristo: le beatitudini
(Chieti, 20 Novembre 2010)
di
Bruno Forte
Arcivescovo di Chieti-Vasto

In un passo della lettera agli Efesini, in cui si avverte un’intensa e perfino
commovente partecipazione emotiva, l’Apostolo Paolo dichiara ai suoi destinatari - “i
santi che sono a Efeso credenti in Cristo Gesù” (1,1) - di piegare “le ginocchia
davanti al Padre, dal quale ha origine ogni discendenza in cielo e sulla terra, perché vi
conceda, secondo la ricchezza della sua gloria, di essere potentemente rafforzati
nell’uomo interiore mediante il suo Spirito” (3,14-16). Subito dopo egli esplicita
questa richiesta così: “Che il Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori, e così,
radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia
l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e di conoscere l’amore di Cristo
che supera ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio” (vv. 1719).
Per Paolo l’uomo interiore - reso forte mediante lo Spirito - è, dunque, l’uomo
nuovo, divenuto tale perché abitato da Cristo e perché il suo cuore è sempre più
immerso negli abissi dell’amore divino.
Quali sono i tratti di questo “uomo nuovo”? Per conoscerli e tendere a
realizzarli nella nostra vita, dobbiamo rivolgerci a quanto Gesù ha fatto e ci dice nel
Vangelo, in particolare nel testo delle beatitudini, vero e proprio manifesto
dell’“uomo nuovo”. Da una parte, le beatitudini rappresentano la biografia del Figlio
di Dio venuto fra noi, perché in Lui solo ognuna di esse trova la sua realizzazione
piena e completa; dall’altra, proponendo Gesù come il solo, perfetto modello cui
guardare, descrivono le caratteristiche dello discepolo che, nella sequela del Maestro,
per la forza dello Spirito, vive l’imitazione del suo Signore, lasciandosi abitare da
Lui. Null’altro è, infatti, l’“imitazione di Cristo” che il farsi presente di Gesù risorto
in noi: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la
vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me”
(Galati 2,19s). Ci avviciniamo, allora, alle beatitudini per imparare da esse a divenire
uomini nuovi con la grazia che ci viene da Gesù: in esse riconosciamo il progetto e il
percorso della santità secondo il Vangelo, perché il santo non è che l’uomo nuovo
reso tale da Cristo, nello grazia dello Spirito Santo, a gloria di Dio Padre.

Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i
suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo…
Non è difficile capire perché l’evangelista Matteo collochi “sul monte” la
proclamazione delle beatitudini: nella Bibbia il monte è per eccellenza il luogo della
rivelazione divina. L’atmosfera è solenne: i discepoli sono attorno a Gesù, seduto
come è costume del Maestro nella pratica dell’insegnamento rabbinico. Il messaggio
che sta per essere annunciato è dunque percepito come una comunicazione che Dio fa
di sé e che va perciò ricevuta con ascolto docile e attento al fine di lasciarsi
illuminare sul disegno dell’Eterno riguardo alla Sua creatura. Accogliere con fede e
intelligenza d’amore le parole che Gesù sta per dire significa essere rivelati a noi
stessi secondo la vocazione preparata dal Padre celeste per ciascuno di noi. Il Figlio
dell’uomo che viene da Dio rivela l’uomo all’uomo: la posta in gioco di quanto dirà
siamo noi, la nostra chiamata, il nostro destino…
Beati
La parola chiave che ritornerà nove volte in ciò che il Maestro sta per dire è
“beati”. Il termine greco “makários” significa “benedetto, fortunato, felice”: esso
esprime la condizione dell’uomo su cui si è posata la benevolenza divina e che ha
così realizzato le aspirazioni più ambite. Proprio così questa creatura è felice, perché
si sente amata da un amore fedele e percepisce che la dignità del suo essere è
riconosciuta, valorizzata, esaltata. È la meta cui aspira ogni essere umano: siamo fatti
per la felicità, e quando essa manca ci sentiamo frustrati, incompiuti, irrealizzati, non
amati, tristi della tristezza più grande, la tristezza di vivere. Beato è invece chi
percepisce di essere avvolto da un amore grande e profondo, rivolto al suo cuore in
modo proprio e personale, un amore sicuro e affidabile, a cui potersi abbandonare
senza paura e senza rimpianti, un amore che ti fa sentire utile e importante e ti fa
apparire la vita bella e degna di essere vissuta. Chi non vorrebbe incontrare un simile
amore? Chi non vorrebbe essere beato così? Parlando di beatitudini Gesù parla a tutti
i candidati alla felicità, a tutto l’uomo, in ogni uomo. Egli annuncia la meta bella e la
via per arrivarci, la gioia e il cammino da percorrere per farne esperienza. Proprio
così quanto sta per dire ci interessa tutti da vicino: il Maestro parla a noi, al nostro
cuore inquieto, alla nostra sete d’amore, al nostro bisogno incancellabile di felicità,
alla necessità che è nel profondo di ognuno di noi di essere riconosciuti nella nostra
identità più vera, amati con un affetto puro, totale, bello e che duri per sempre.
Proprio da qui parte la rivoluzione di Gesù: dicendo “beati” egli richiama il mondo
delle nostre aspirazioni più grandi, mentre ciò che aggiunge di volta in volta ci
sconcerta e ci interroga, perché sembra indicare proprio l’opposto di ciò che
avremmo immediatamente voluto o cercato…

Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
Chi chiamerebbe beato un povero? La povertà non è amabile, appare anzi
ripugnante: richiama bisogni insoddisfatti, emarginazione e rifiuto, solitudine e
abbandono, e l’impossibilità di fare ciò che avresti desiderato o voluto. La povertà
non è bella, né attraente: e Gesù chiama “beati” i poveri! È vero che il testo di Matteo
aggiunge “in spirito”, precisazione che manca nel passo parallelo del Vangelo di
Luca (6,20): ma questa aggiunta, che sottolinea la necessità di una povertà scelta e
voluta dal di dentro di te stesso, sembra rendere ancora più grave e inaudita la parola
di Gesù. È come se egli dicesse che non basta essere poveri per essere beati, ma
occorre scegliere e amare questa povertà, occorre volerla, anche se con l’aiuto e la
forza che solo lo Spirito di Dio può darci. Insomma, Gesù ci mette in crisi su tutti i
fronti: la via della gioia che ci indica è opposta a quella del successo in questo
mondo, del denaro, del piacere, del potere ambiti come beni preziosi. Quello che il
Maestro vuole dirci è che nulla di penultimo può riempire la sete infinita d’amore che
ci portiamo dentro, e che solo se diventiamo vuoti di tutto possiamo lasciarci riempire
da Dio, dalla Sua signoria, che illumina, trasforma e riscalda di vero amore tutto ciò
che raggiunge. “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli!”
Beati quelli che sono nel pianto,
perché saranno consolati.
Chi non è mai stato “nel pianto”? Chi non ha mai conosciuto notti di dolore e
giorni di afflizione e di lacrime? Gesù richiama l’universale condizione umana, così
diversa dall’allegria ostentata, dall’edonismo sfacciato, ricercato a tutti i costi e con
ogni mezzo. Il dolore è l’esperienza che unisce tutti, prima o poi, in un modo o
nell’altro: parlando di “quelli che sono nel pianto” il Maestro non sembra riferirsi a
sofferenze fugaci, ad attimi passeggeri di dolore o di tristezza, ma a quella condizione
prolungata, sorda, costante, che a volte sembra soffocare l’anima. Il paradosso che
Gesù annuncia si comprende proprio a partire da qui: nell’abisso del tuo dolore puoi
essere beato, se riconosci accanto a Te la compagnia del dolore divino, dell’amore di
Dio per il mondo come ci è stato rivelato nel Figlio. Quando sei “nel pianto” non sei
solo: Lui è con te. Lui ha sofferto prima di te e per te, per la sola ragione che Lui ti
ama. A te basta rispondere, riconoscendo nel dolore una misteriosa chiamata, una
Presenza amica e consolante. Unito al Signore che ti è vicino, il tuo dolore può essere
trasformato in offerta d’amore, il pianto in consolazione e speranza, fino a
riconoscere il “dono delle lacrime”, che liberano il tuo cuore oppresso e leniscono le
piaghe della tua anima. Insieme al Maestro, crocifisso per amore nostro, il dolore
diventa salvifico, per te e per gli altri per cui lo offri. A tutto questo possiamo credere
sulla parola di Gesù, che è entrato fino in fondo nel nostro dolore e nella nostra morte
per starci accanto e donarci la gioia e la vita senza fine: “Beati quelli che sono nel
pianto, perché saranno consolati”.
Beati i miti,
perché avranno in eredità la terra.
Chi sono i “miti”, se non quelli che confidano nella forza liberante e
pacificante della convinzione interiore e dell’amore offerto senza aspettarsi un
ritorno, spinto addirittura fino al sacrificio di sé? Mite è chi crede nell’efficacia della
non-violenza ed è pronto a porgere l’altra guancia a chi lo schiaffeggia, a far del bene
a quanti gli fanno del male, anche contro ogni calcolo e misura di successo. Mite è
chi è pronto a chiedere e dare il perdono, perché è convinto che le ragioni del cuore
che crede e che ama sono più durature ed efficaci di quelle della forza. Mite è chi
preferisce sempre l’ascolto, il dialogo, l’accoglienza e la riconciliazione alla chiusura,
al rifiuto, al desiderio di rivalsa e alla vendetta. La soluzione dei conflitti non si
otterrà col ricorso alle armi: il mite non crede nella guerra e non riconosce alcuna
guerra giusta, tale cioè che le distruzioni operate e le vite umane sacrificate possano
essere proporzionate allo scopo da conseguire. La “non violenza” è l’espressione
coraggiosa ed esemplare di questa mitezza, che sulla bocca di Gesù attinge alla
profondissima fonte del rapporto vitale della persona che la pratica con Lui, il mite e
umile di cuore. Se i miti “erediteranno la terra”, non sarà la violenza a vincere: prima
o poi trionferanno la giustizia e il perdono, perseguiti con fiduciosa tenacia a partire
dalla forza della verità con l’aiuto che il Maestro dà a chi lo segue sulla via della
Croce. L’offerta di sé in unione al Dio Crocifisso è la sorgente della mitezza che
accoglie, perdona, rispetta e soccorre tutti con gratuito amore. Chi vive questa
compagnia del Figlio abbandonato e risorto crede nell’impossibile possibilità di Dio
assicurataci da Lui: “Beati i miti perché erediteranno la terra”.

Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
La giustizia è il dare a ciascuno il suo, a Dio come a ognuno dei nostri fratelli
in umanità. È giusto chi ama il Signore con tutto il cuore e a Lui solo vuole piacere e
dare gloria. Chi agisce così, rispetterà ogni essere umano, riconoscendo nel volto
d’altri, di ogni altro, un’esigenza infinita d’amore, il diritto inalienabile di ciascuno
ad essere riconosciuto nella propria dignità di figlio di Dio, fatto a immagine del
Creatore e Signore del cielo e della terra, un fratello per cui Cristo è morto.
Impegnarsi per la giustizia, averne fame e sete, vuol dire tendere in ogni scelta e
comportamento alla piena realizzazione di ogni essere umano secondo il disegno di
Dio e quindi al bene maggiore possibile per ognuna delle Sue creature. Chi agisce
con giustizia e per la giustizia riconosce nell’altro non un avversario o un pericolo,
ma un appello e un dono, specialmente se non può darti nulla in cambio. Ha fame di
giustizia chi ama il povero, chi vede nel volto del misero il volto di Gesù ed è pronto
a pagare di persona perché il diritto dell’umile non sia calpestato e la sua dignità sia
sempre rispettata e promossa. Se veramente chi ha fame e sete di giustizia sarà
saziato, come assicura il Maestro, possiamo essere certi che il Dio del Vangelo è un
Dio “di parte”, vindice dei poveri e degli oppressi, dalla parte dei deboli e dei senza
speranza. L’umile non sarà dimenticato dal Padre che è nei cieli, e chi si impegna per
garantirne il diritto conoscerà la beatitudine anche nell’apparente sconfitta, in ogni
prova e fatica, al di là di ogni calcolo o evidenza umana. Pagare il prezzo dell’amore
per la giustizia è già essere partecipi della vittoria di Dio, difensore dei poveri e dei
deboli: “Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati”.
Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
Misericordioso è chi ha un cuore compassionevole, che ama non a motivo dei
meriti dell’altro, ma per il solo fatto che l’altro c’è. L’immagine più trasparente della
misericordia è quella dell’amore di una madre per la sua creatura: amore viscerale,
che non fa il calcolo del dare e dell’avere, ma dà senza motivazione e senza misura.
In ebraico - lingua in cui batte particolarmente il sangue caldo della vita - il termine
per dire misericordia è “rahamim”, che vuol dire “viscere”, “grembo” di donna che
custodisce e genera la vita. Dio ama così: è Padre e Madre nell’amore. Saperlo è
sorgente di pace, perché ci libera da tutto l’affanno di cercare motivi - sempre
improbabili - per meritare il Suo amore. Chi anche una sola volta nella vita ha fatto
esperienza della misericordia divina, sa quanto è bello esserne avvolti, lasciarsene
inondare e trasformare, e come essa ci chieda di non metterci mai sul trono del
giudice riguardo a gli altri, ma sempre e solo nell’atteggiamento di chi accoglie,
comprende e ama. La misericordia genera misericordia: chi l’ha conosciuta, impara
ad essere per l’altro porto e sorgente di misericordia e di perdono, a prescindere da
ogni merito e da ogni reciprocità. E chi offre misericordia, amando senza attendersi
alcun ritorno per sé, entra sempre più negli abissi trasfiguranti delle divina
misericordia: è dando che si riceve; è morendo a se stessi, che si resuscita a vita
eterna, immersi nell’infinita misericordia di Dio. “Beati i misericordiosi, perché
troveranno misericordia”.

Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio.
È puro di cuore chi non considera assoluto ciò che è relativo, chi sa riconoscere
il penultimo e valutarlo nell’orizzonte dell’ultimo, che è solo Dio e la Sua gloria.
Impuro è il cuore attaccato alle cose che passano, che cerca di goderne illudendosi
che esse possano dare la gioia e la felicità che non passano. In un mondo che
assolutizza ciò che è relativo e giustifica ogni mezzo per possedere il bene fugace e
fragile come se dovesse restare per sempre, la purezza di cuore non sembra essere di
moda, né attuale né attraente. Eppure, sembra dirci Gesù, è questo l’abbaglio capace
di rovinare il cuore e la vita! Solo chi ha un cuore puro potrà vedere Dio, oggi
riconoscendone i segni e la presenza nei frammenti del mondo che passa, domani
contemplandone senza veli il volto nella bellezza del mondo che non avrà fine. La
purezza del cuore è allora la condizione per la realizzazione del desiderio più
profondo del nostro essere creature chiamate ad amare, il desiderio di vedere Dio e di
poterlo amare essendone infinitamente amati. Il puro di cuore vive alla presenza di
Dio e Dio vive in lui, negli abissi della sua anima assetata di luce, di bellezza, di
amore. Custodire il cuore, vigilare perché nessuna sporcizia ed egoismo appannino
gli occhi dell’anima, vuol dire aprirsi alla gioia grandissima che solo la visione di Dio
può darci. In tutto ciò che sei e fai, che scegli o che rifiuti, non dimenticare di cercare
e realizzare la condizione decisiva della felicità, che nasce dal vedere accanto a Te e
per Te la presenza dell’Amato e dal cogliere il senso e il valore di tutto nella Sua
luce: “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio”.

Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio.
La pace non potrà mai venire dalla paura del più forte o dalla fiducia nella
potenza delle armi: quanti sono stati nella storia i giganti dai piedi di argilla, per i
quali è bastato un sassolino a far crollare la macchina impressionante del loro potere!
Opera per la pace non chi pone la sua fiducia nello spettro della guerra, ma chi segue
sempre e fino in fondo la via del dialogo, della giustizia per tutti e del perdono. Non
si risolveranno i conflitti chiudendosi all’ascolto dell’altro, accecati dalle proprie
ragioni: solo chi si sforzerà di capire le ragioni dell’altro potrà costruire la pace con
lui. Solo chi si impegnerà a rispettare la giustizia per tutti, aprirà la strada all’incontro
e alla riconciliazione delle parti in gioco. Solo chi saprà chiedere e offrire perdono,
sarà un costruttore di pace. Chi vuole servire la pace dovrà imparare a riconoscere
nell’altro il compagno in umanità, figlio dell’unico Padre Signore della terra e del
cielo, il fratello per cui Cristo è morto. Ecco perché gli operatori di pace saranno
riconosciuti come figli dell’unico Padre, figli che generano altri figli per Dio
costruendo ponti di pace nella comune obbedienza alla verità che libera e salva. La
gioia di chi edifica la pace è la felicità di chi si scopre amato dall’Altissimo e reso in
questo medesimo e unico amore fratello universale, fratello di tutti al servizio del
bene di ciascuno e dell’intera famiglia umana. “Beati gli operatori di pace, perché
saranno chiamati figli di Dio”.
Beati i perseguitati per la giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.
Chi veramente ama è pronto a pagare il prezzo perché nessuno sia calpestato e
offeso. Il Signore crocifisso ne è la prova luminosa e perfino conturbante: Gesù non
ha mai fatto violenza a nessuno, preferendo piuttosto consegnarsi alla morte per
amore di tutti, perfino dei suoi persecutori. Chi vuol seguire il Maestro sa che non c’è
altra strada per essere felici e rendere gli altri felici: preferire di essere perseguitati
per la giustizia, piuttosto che fare del male a qualcuno o ricorrere a mezzi ingiusti per
far trionfare la propria causa. Chi crede in Gesù, crede nella potenza della debolezza.
Il discepolo del Dio crocifisso sa che nessuna giustizia potrà essere costruita
sull’ingiustizia, nessuna riconciliazione sulla vendetta, nessuna pace sulla violenza e
la sopraffazione. A che servirebbe guadagnare il mondo intero, se poi si dovesse
perdere la propria anima? Beato è chi soffre per causa della giustizia, accettando di
amare anche chi lo perseguitasse. L’impotenza di Dio è più forte della potenza degli
uomini! La debolezza dell’amore, vissuto in unione all’offerta del Figlio
abbandonato, è la sola vittoria che vincerà il mondo. Saperlo è già profondissima
pace: “Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio”.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni
sorta di male contro di voi per causa mia.
Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così
infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi.
Gesù si rivolge ora direttamente a noi, suoi discepoli. Non ci pensa come
trionfatori, ma come l’umile Chiesa della Croce che porta a tutti il Suo Vangelo e che
per questo trova incomprensioni, offese, persecuzioni e calunnie. Il Maestro sa che il
Suo messaggio è scomodo, perché capovolge la logica del mondo: e le beatitudini ne
sono prova evidente! Sovvertire la gerarchia dei valori e dei gusti, anteporre a tutto
l’obbedienza a Dio e il dono di sé fino alla fine, non solo appare a molti follia, ma dà
anche fastidio, perché smaschera le false verità del mondo e inchioda i potenti alle
loro responsabilità, mentre esalta il diritto dei poveri e dei deboli e il loro primato
nella gerarchia del cielo. Seguire Gesù non è mai stato facile, come prova la vita dei
santi. Eppure, è veramente bello: chi, come Lui, potrà darci la gioia di cui il nostro
cuore inquieto ha tanto bisogno? Chi ci darà l’amore di cui abbiamo fame e sete, o
chi riconoscerà la dignità del nostro povero essere, se non Lui che ci ha amati e ha
consegnato se stesso alla morte per noi? Cristo non è solo la verità che illumina e il
bene che riscalda, ma è anche l’infinita bellezza che salva, fonte di gioia e di pace.
Perciò il Maestro ci dice: “Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra
ricompensa nei cieli”. E ci assicura che, seguendo Lui, entriamo nella grande schiera
dei profeti e dei santi e partecipiamo sin da ora alla bellezza che un giorno ci sarà
data senza misura nella città celeste. L’uomo nuovo delle beatitudini, il discepolo
amato, non sarà mai solo e proprio così vincerà il Maligno e le potenze della morte.
La sua gioia non avrà mai fine: “Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno
e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed
esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i
profeti che furono prima di voi”.
Il santo è chi ha compreso e vissuto tutto questo: è l’uomo o la donna delle
beatitudini. Egli vive la gioia promessa da Gesù alle condizioni indicate da Gesù.
Perciò, chi vuol tendere alla santità - umanità piena e felice, in cui il progetto di Dio è
portato a compimento - chiederà pregando con cuore umile e fiducioso che si realizzi
sempre più in lui la verità delle beatitudini: “O Signore, fa’ di me uno strumento
della Tua Pace. Dove c’è odio, ch’io porti l’amore, dove c’è offesa, ch’io porti il
perdono, dove c’è discordia, ch’io porti l’unione, dove c’è dubbio, ch’io porti la fede,
dove c’è errore, ch’io porti la verità, dove c’è disperazione, ch’io porti la speranza,
dove c’è tristezza, ch’io porti la gioia, dove ci sono le tenebre, ch’io porti la luce. O
Maestro, fa’ ch’io non cerchi tanto di essere consolato, quanto di consolare; di
essere compreso, quanto di comprendere; di essere amato, quanto di amare. Poiché è
dando che si riceve, è perdonando che si è perdonati, è morendo che si risuscita a
vita eterna. Amen! Alleluja!”.




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